COMUNITA’. Il presepe di Kayrós, promessa di rinascita
C’è un presepe di cui sono protagonisti i ragazzi di Kayrós che parla dei loro dolori e delle loro speranze attraverso scene di vita quotidiana.

Un ragazzo ripiegato su sé stesso in una cella del carcere, le casette colorate dove vivono i ragazzi e che si affacciano sul campo di calcio, la scritta che campeggia all’ingresso della comunità: “Non esistono ragazzi cattivi”.
E la scena principale di ogni presepio: la natività di Gesù. “I ragazzi hanno scelto questa modalità per testimoniare che c’è qualcosa in grado di scardinare anche le porte chiuse di una cella – spiega il direttore Guido Boldrin – e per affermare che ci sono luoghi dove è possibile rialzare la testa, tornare a sperare, diventare protagonisti di una rinascita, se qualcuno offre una opportunità, un kayròs, come dice il nome della nostra comunità”.
Dario è uno dei giovani che ha realizzato il presepe: “Abbiamo messo a frutto le riflessioni sulle nostre storie, sulla presa di coscienza degli errori commessi e sulla gratitudine per avere ricevuto una proposta per cambiare direzione. Dentro le crepe della nostra vita si è infilato un raggio di luce, qualcosa di gratuito e inatteso, proprio come la nascita di Gesù. Per questo costruire il presepe insieme è un buon auspicio per un futuro luminoso”.

Flavio è un volontario che ha collaborato alla realizzazione: “Il risultato finale è qualcosa di significativo anche se imperfetto. Proprio questo rende più autentico ciò che abbiamo costruito. Gesù è venuto al mondo in una mangiatoia, circondato da pastori e povera gente, Dio si è fatto uomo in una condizione di sofferenza, e anche il nostro presepe è opera di persone fragili, piene di limiti ma amate”.

L’opera partecipa alla mostra “Presepi della carità” promossa dalla diocesi di Reggio Emilia e dall’associazione Città di Reggio e allestita nel Battistero della città emiliana. “La nostra comunità è un piccolo segno per testimoniare che Dio non lascia indietro nessuno e che non si cresce e non si cambia da soli. Al tempo stesso è un richiamo alla società perché chi ha sbagliato non diventi oggetto di uno stigma ma possa trovare occasioni di riscatto – osserva Boldrin – Per questo sono necessarie una compagnia di persone amiche e una sensibilizzazione dell’opinione pubblica capace di abbattere pregiudizi e diffidenze. Papa Francesco ha ricordato più volte un proverbio africano: ‘Per educare un bambino serve un intero villaggio’.
E’ proprio vero: perché la luce di Gesù possa risvegliare l’umano di questi giovani occorre la responsabilità di tutti, non solo degli addetti ai lavori.
Giorgio Paolucci